martedì 5 luglio 2011
LA POLITICA OGGI: " MENO APPARTENENZA E PIU' PARTECIPAZIONE". INTERVISTA AL MASSMEDIOLOGO MICHELE SORICE
Oltre ad insegnare Comunicazione Politica e Sociologia della Comunicazione presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Luiss “Guido Carli” di Roma, il Professor Michele Sorice dirige, nel medesimo ateneo, il Centro Studi su Media e Comunicazione “Massimo Baldini”. Sempre all’interno del mondo Luiss, insegna inoltre alla Luiss Writing School e alla Scuola di Giornalismo anch’essa intitolata alla memoria di Massimo Baldini. E ed è proprio dal ricordo del silenzioso e riservato docente scomparso improvvisamente qualche anno fa, che desideriamo iniziare quest’intervista.
1) Professor Sorice, il suo collega Massimo Baldini amava sostenere che una comunicazione felice è soprattutto amore del silenzio. Un messaggio che stenta ad affermarsi in un contesto in cui, dalle piattaforme tradizionali della politica fino a quelle più innovative promosse dalla rete, sembra prevalere invece l’amore per il chiacchiericcio e la polemica sterile ma ad ogni costo. Come ovviare a questa tendenza?
La tendenza al “rumore” è strettamente connessa ai processi di mediatizzazione. I media tendono a essere pervasivi e a moltiplicare, talvolta in maniera ridondante, informazioni, commenti, punti di vista, dichiarazioni propagandistiche, azioni pubblicitarie e così via, tutte confuse in un unico grande flusso. L’offerta e la domanda di comunicazione crescono in maniera esponenziale: si tratta di un processo inevitabile. Massimo sapeva benissimo che eliminare il rumore è impossibile ma proprio per questo perseguiva il silenzio come momento di discernimento, come una specie di grimaldello per forzare la porta della comunicazione che, a causa dell’eccesso comunicativo, rischia di nascondersi alla nostra vista.
Il legislatore era stato previdente e accorto: il “silenzio elettorale”, quello che precedeva (e teoricamente ancora precede) la giornata delle elezioni, serviva proprio a questo. Si trattava di uno spazio simbolico in cui al rumore si sostituiva un silenzio fatto di ragionamenti pacati in famiglia o fra amici. Quel silenzio – per quanto simbolico – costituiva (dovrebbe costituire) il momento in cui le passioni venivano ricondotte alla serenità del ragionamento. Purtroppo anche quello spazio simbolico di silenzio viene spesso invaso dal “rumore” dell’informazione. Il rischio è che nel caos entropico, alla fine non si capisca più niente. Non è un caso che chi ha pochi argomenti preferisca il rumore della rissa mediatica o delle tante macchine del fango (che sono un altro modo per provocare rumore e quindi impedirci di comprendere le cose).
2) In occasione delle recenti elezioni amministrative e ancor più in seguito ai risultati referendari, si è spesso posto l’accento sull’importanza assunta dai social network nel determinare i processi politici. Non le sembra invece che questo fenomeno sia stato un po’ troppo enfatizzato e, di conseguenza, siano state sottovalutate le reali motivazioni di una partecipazione popolare così massiccia?
Io credo che, come spesso accade, si sia operata una semplificazione di un processo però realmente importante. I social network non determinano processi politici ma possono giocare un ruolo molto importante nella costruzione di connessioni fra soggetti, possono in altre parole diventare uno spazio sociale di condivisione di esperienze e idee nonché uno strumento per l’attivazione di azioni di partecipazione sociale sul territorio. Detto in maniera un po’ semplificatoria: ci sono quelli che ritengono che i social media siano ininfluenti o quasi (è la posizione di molti studiosi, come per esempio Morozov che aveva fatto quest’analisi sul ruolo di Twitter e Facebook nelle rivoluzioni del Nord Africa), poi ci sono quelli che pensano che i social media rappresentino l’unica chiave di sviluppo della partecipazione sociale (posizioni iper-ottimistiche molto diffuse nella “narrazione” che la stessa rete a volte fa di se stessa); infine ci sono quelli che pensano che la rete rifletta una tensione presente nella società e siano però fondamentali nel processo di costruzione delle “architetture” di partecipazione. Ecco, io faccio parte di questa terza corrente, se così la vogliamo chiamare, di ricercatori.
La gente ha sentito il bisogno di partecipare perché avvertiva che i problemi rappresentati dai quesiti referendari li toccavano sulla propria pelle. E anche perché sta nascendo – soprattutto nei giovani – un’attenzione alla politica, una politica che è meno “appartenenza” e più partecipazione. Non si tratta di una tendenza costruita dai social network (e ai referendum peraltro hanno votato tantissimi anziani che difficilmente rappresentano il “popolo della rete”); al tempo stesso, però, è innegabile che il web 2.0 abbia favorito l’espressione di idee e contribuito alla legittimazione del valore della partecipazione. Un valore, peraltro, ribadito dal Presidente della Repubblica.
3) I principali partiti italiani – di maggioranza e di opposizione – vivono attualmente una fase di riorganizzazione e ridefinizione degli organigrammi interni, con grande fibrillazione tra i vari gruppi dirigenziali in un certo qual modo percepiti come dominanti. All’esterno invece, si tende a voler imporre un’immagine di coesione generale e complessiva unità di intenti. Cosa accade realmente nel sistema partitico italiano?
L’intero sistema politico italiano sta attraversando una fase di profonda riorganizzazione. La logica dell’appartenenza ideologica, che animava la politica del secondo dopoguerra fino alla fine degli anni Settanta, si è dissolta con il declino dei partiti-chiesa e con l’implosione delle grandi ideologie ottocentesche. C’è stata poi la fase della politica come rappresentazione; alla rappresentanza ideologica si è sostituita la rappresentazione mediatica. Un processo che inizia ben prima di Berlusconi, già con Craxi, e che trova nella televisione lo spazio deputato alla sua crescita: spettacolarizzazione, personalizzazione dell’attività politica, centralità delle strategie di marketing. Si tratta di una fase che è ancora in corso ma che si scontra con una nuova tendenza: quella del ritorno alla politica come rappresentanza. Non più rappresentanza simbolica (cioè ideologica) bensì rappresentanza di interessi diffusi, trasversali, a volte persino solidaristici. La politica come rappresentazione mediatica alimenta e sfrutta meccanismi un po’ egoistici di tipo “NIMBY”, la riscoperta della rappresentanza di interessi plurali potrebbe incrementare spinte verso legami di solidarietà. Insomma, politica come partecipazione sociale.
Naturalmente si tratta di tendenze appena accennate che andranno verificate. Ecco, in questo quadro, i partiti sembrano ancora legati alle vecchie logiche; in parte quella della rappresentanza ideologica e, per la maggior parte, quella della rappresentazione puramente mediatica. Non riescono a intercettare i bisogni sociali e fanno fatica a rappresentare le nuove emergenze: daslla mancanza di speranza verso il futuro di molti giovani alle sensibilità ambientali, dal rinnovato protagonismo delle donne a bisogni collettivi di tipo culturale.
Da qui le spaccature interne ai partiti, con soggetti che cercano di interpretate (o a volte semplicemente inseguire) alcuni strati della società; il nuovo che cerca di abbattere il vecchio (ma spesso usando le stesse prassi politiche) e così via. I media accentuano l’immagine un po’ stantìa dei partiti e questo incrementa una disaffezione che è già forte e che, come dicevo, è connessa anche a un bisogno di partecipazione sempre meno ancorato all’appartenenza.
In questo quadro i partiti dovrebbero tornare a fare formazione, formazione alla politica nel senso più alto e nobile e non “recruiting” travestito da formazione. Un caso emblematico: uno dei pochi esempi seri di formazione politica è quello dell’Officina Politica del Pd. Bene: i media hanno ironizzato e lo stesso partito non sembra (almeno a leggere dai giornali) averla presa molto seriamente. E invece è quella – anche per altri partiti forse – la strada da seguire. L’azione politica spesso viene dallo studio serio della società e dei suoi problemi e da un progetto condiviso sulla società.
4) Le ideologie novecentesche ci hanno abbandonato ormai da un pezzo, lasciando aperti ampi spazi liberi che tutti i partiti hanno cercato di riempire in vari modi. La personalizzazione della politica ha fortemente inciso su questo processo, imponendo la figura del leader come centro propulsivo di qualsiasi azione partitica. Esistono nel nostro paese dei veri e propri leader in grado di (ri)mobilitare le masse colte da disaffezione nei confronti di un mondo – quello della politica, giustappunto – che appare loro distante ed autoreferenziale?
Il processo di personalizzazione della politica si accompagna alla crescita di centralità della figura del leader, vero e proprio principe democratico come lo definisce giustamente Sergio Fabbrini. In realtà la figura del leader si è imposta anche grazie alle trasformazioni istituzionali che abbiamo avuto, alcune formali (come nel caso del Titolo V della Costituzione) altre di fatto o effetto di percezione sociale. Bisogna poi aggiungere la crescente specializzazione e complessificazione delle società avanzate, che richiedono decisioni semplici e immediate a fronte di una macchina organizzativa sempre più diffusa e complessa. Non è un fenomeno solo italiano e ne sono affetti anche i sistemi di tipo parlamentare basati sui partiti (come, per intenderci, quello britannico e, seppur diversamente, quello italiano).
In realtà, come abbiamo detto, la disaffezione è verso i partiti non certo verso la partecipazione sociale, su cui anzi (come abbiamo visto per i recenti referendum) c’è una crescita d’interesse.
I leader italiani spesso non hanno molte delle caratteristiche del leader politico della modernità, dal carisma weberiano alle competenze specializzate e alla capacità mediatica. Il caso Berlusconi rappresenta un’eccezione ed è costruito su una forte mediatizzazione dell’immagine e del corpo del leader. Bisogna poi fare attenzione a non confondere le figure di leader con quelle di capi populisti: si tratta di fenomeni che, pur producendo risultati simili, sono abbastanza diversi. Sicuramente una figura efficiente di leader (anche rispetto alla propria autorappresentazione) è quella di Nichi Vendola. Al momento, però, mi sembra ancora un leader che smuove sì segmenti ampi e nuovi della società italiana ma non ancora le grandi masse.
5) Soffermiamoci un istante a riflettere sullo stato di salute dei due maggiori schieramenti politici tuttora esistenti. Il Pdl, dopo la nomina a segretario politico di Angelino Alfano, deve necessariamente diventare “partito” se desidera scongiurare un’implosione. Il Pd sembra incapace di sfruttare il vento di cambiamento nato di recente proprio nelle piazze virtuali di Facebook e Twitter. Cosa prevede per il futuro del centrodestra e del centrosinistra?
Difficile dirlo con nettezza perché la situazione è molto fluida. Il Pdl, anche con la nomina del ministro Alfano a segretario politico, resta un partito personale e d’altra parte non può essere altrimenti. Riuscirà a trasformarsi in partito più strutturato solo quando Silvio Berlusconi abbandonerà la politica attiva (o comunque svolgerà ruoli diversi). C’è da dire, però, che il collante rappresentato dal leader non potrà essere sostituito da una semplice organizzazione strutturale. Il rischio, per il Pdl, è la sua frammentazione o, almeno, la sua ricollocazione; è infatti un partito molto differenziato al suo interno, come lo era la Dc. Ma con una differenza fondamentale: la Dc trovava nei valori del popolarismo e, in parte, del cattolicesimo democratico il suo collante culturale; il Pdl lo ha nella figura di Berlusconi.
Diverso il caso del Pd, che è un partito nuovo. Non è la semplice fusione delle tradizioni democratico-cristiana e di quella comunista ma un soggetto che da quelle storie sviluppa un nuovo progetto politico. Ha quindi bisogno di tempo per costruire la propria identità: questo è il suo più grande problema. Non riesce, infatti, ad assumere una definizione del proprio stesso ruolo e della sua posizione. Il Pd ha tre prospettive. La prima è quella di provare a cavalcare le nuove emergenze sociali: sarebbe un errore e provocherebbe un effetto boomerang pauroso. La seconda è quella di provare a costruire un nuovo progetto di tipo politicistico: il rischio in questo caso è che i suoi stessi elettori non lo capiscano. La terza è quella di lasciarsi ibridare dalle nuove esperienze di partecipazione, diventare il collettore aperto, la cornice di nuovi bisogni di accesso alla politica. Quest’ultima potrebbe essere una strategia vincente ma ha bisogno che il Pd abbandoni le vecchie logiche della politica tradizionale e adotti anche un linguaggio nuovo. Le primarie potrebbero essere uno strumento importante, a patto che il Pd si ponga come garante e “padre nobile” e non come parte in causa.
Insomma, mi sembra che i partiti più importanti facciano – per motivi diversi – un po’ di fatica a interpretare i cambiamenti.
6) Recentemente, Lei ha sostenuto che almeno simbolicamente, il leader ha bisogno di un popolo ed il popolo di un leader. Se vale questo assunto, dovrebbe venir meno la necessità di radicamento territoriale di qualsivoglia soggetto partitico. Quali rischi comporta quindi la totale identificazione dell’individuo politicizzato con il Principe?
La mia affermazione era legata a quanto dicevo prima a proposito della necessità di un leader in virtù della complessificazione della vita politica e del ruolo dei media come nuovo spazio pubblico. In realtà un leader ha bisogno poi di una struttura: il partito, almeno come macchina organizzativa, non viene meno. Purtroppo tende a perdere il ruolo di luogo dell’elaborazione politico-culturale e a diventare una struttura di propaganda a servizio del leader stesso: una specie di “spin machine”. Ma per questo il bisogno del radicamento territoriale continua a permanere.
Da qui la necessità che il partito conservi, almeno in parte, un ruolo politico; questo è ovviamente quasi impossibile nei partiti personali.
In sostanza – e sempre semplificando – noi abbiamo diversi tipi di leadership; le due principali sono quella populistica e quella che potremmo definire “orizzontale”. Il leader populista rappresenta (o cerca di rappresentare) l’intero corpo elettorale e di fatto rende inutile il ruolo di intermediazione della classe politica: il rischio è il declino verso l’esautoramento delle istituzioni e la perdita di centralità dei parlamenti. Non è un caso che questi tipi di leader presentino sempre una retorica anti-parlamentare (parlamento inutile o vecchio o lento o inefficiente e così via) e sostanzialmente antipolitica. Il leader orizzontale è più difficile da far emergere: ha bisogno di una pluralità di soggetti che lo legittimano e deve intercettare un bisogno di partecipazione che, almeno a livello simbolico, deve essere il suo alimento, prima ancora dei media. Esperienze simili sono quelle che hanno portato ad alcune candidature a sindaco. In questo caso, il leader cresce grazie ai media ma ha bisogno di un popolo che lo legittimi nell’azione politica, senza limitarsi ad applaudirlo acriticamente.
L’attuale interconnessione fra media e politica facilita lo sviluppo e l’emergenza di leader populisti, con rischi di non poco conto per la tenuta della democrazia.
7) Tra le varie tracce della prima prova di italiano elaborate in occasione del’esame di maturità di quest’anno, il tema dedicato alla diversa conformazione della Destra e della Sinistra sembra essere stato “snobbato” dai giovani studenti che invece hanno preferito optare per l’analisi del concetto di “fama” promosso dall’industria televisiva. I reality ed i talent show hanno avuto la meglio sullo spunto di riflessione politica offerto ai maturandi. Come invoglierebbe un giovane ragazzo ad avvicinarsi allo studio di un mondo complesso come quello della scienza politica e della comunicazione ad essa legata?
Per quanto riguarda la maturità, credo che il tema sia stato snobbato solo perché richiedeva maggiori competenze e conoscenze anche di carattere storico. D’altra parte la “fama” è ormai entrata anche nell’analisi politica: il tema della “celebrity politics”, per esempio, o i processi di “pipolization” sono evidenze di come la popolarizzazione della politica abbia prodotto anche una trasformazione dell’attore politico in “performer”.
Sono peraltro convinto che i giovani stiano riscoprendo il valore della politica, il suo ruolo, la dignità dell’azione politica. Permane lo scetticismo sui partiti, è vero. Ma sono sempre di più i giovani che vogliono partecipare: anche in rete, al banale “clicktivism” (l’attivismo facile che si limita a un “mi piace” o a una firma di petizione o a un re-tweet) si è sostituita una partecipazione che produce effetti sul territorio. Non sono pessimista sui giovani.
Alle cose che i giovani già sanno e che stanno scoprendo autonomamente, aggiungerei che la politica è una cosa bella perché è progetto sul futuro, per un futuro non solo egoistico ma condiviso e solidale. Non sono così i partiti? Può darsi. Ma forse possiamo cambiarli. La politica è di tutti: capire questo significa fare già un passo importante per preservare la democrazia. E per costruire da protagonisti il futuro di tutti.
Intervista a cura di Angelica Stramazzi,,tratta da SPINNING POLITICS
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